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venerdì 12 febbraio 2010

Consigli di lettura

Eros e Priapo di C.E. Gadda 

Li associati cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onta la Italia, e precipitarla finalmente a quella ruina e in quell’abisso ove Dio medesimo ha paura guatare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita. Ogni fatto o atto della vita e della conoscenza è reato per chi fonda il suo imperio sul proibire tutto a tutti, coltello alla cintola.


Si direbbe che la coscienza collettiva, e la singula, oltraggiate dal coltello, dal bastone, dall’olio, dall’incendio, e di poi messe in bavaglio da disperati tramutatisi per scaltrita suasione in soci nel grido e nell’armi, dalle carceri, dalle estorsioni, dal veto imposto per legge, se legge fu quella, a ogni forma del libero conferire e prima che tutto alle stampe, dalla sempiterna frode ond’era spesa la parola e l’intendimento e poi l’atto, dalla concussione sistematica esaltata al valore e direi al decoro formale di un’etica nicomachèa, dalla tonitruante logorrea d’uno o d’altro poffarbacco, dalla folle corsa verso l’abisso e, ad ultimo, dalla strage, dalla rovina del paese, si direbbe codesta coscienza l’abbî trovato ricetto, quasi oltre lor lagune i Veneti, così ella in una zona munita dall’acque, contro la storia spaurata. Si direbbe riparasse, codesta coscienza, di là dall’odio e dalla bestiaggine: tra profughi, perseguitati, carcerati, oltraggiati e congiunti e figli di deportati e di fucilati: e la risorga alfine come dal nero fondo della miniera alla luce, chiedendo a Dio di poter proferire le parole della vita.

Con proibire tutto a tutti, la delinquente brigata ha garentito a sé ogni maggior comodità e sicurezza, dello illecito contro eventuali masnade concorrenti; simile a chi crea una riserva da cacciare e da raccogliere a sua posta, senza tema e senza pericolo, e’ suoi adepti simulare grinta e ringhiare, dormir soavi o sedere al gioco senz’opera quanto gli è piaciuto e paruto; e dar di mazza o di stocco, fucilare, deportare, bavare e gracidare nelle concioni e delirare nelle stampe; il Vigile dei destini principe ragghiare da issu’ balconi ventitré anni, palagiare la campagna brulla di inani marmi e cementi, e voltar gli archi da trionfo, anticipati alla cieca ad ogni sperato trionfo e assecurata catastrofe. Seminato il vento machiavello d’una sua brancolante alleanza, ricolse tempesta issofatto dalla maramaldosa pugnalata inferta a un morente popolo. Ruggente lïone di tutto coccio stivaluto e medagliuto, lungimiranza ve’ ve’ di tremebondo bellico lo strascinò di forza alla smargiassata africana, a spargere ne’ deserti feral morbo con porger l’otre alla sete degli eroi e de’ martiri, non anco patita la volontà del socio di ferro di cui, vaso di tutto coccio, così ciecamente s’era costituito prigione. 

Securo come il fulmine  di quel tal securo, largì alti alpini del Piemonte alla morte senza scarpe, poche mitragliatrici bastarono nella tormenta e nel luglio senza scarpe, i tremila metri aiutando. Tempista ed arùspice de’ più dotati di bel tempo, ora viene il bello. No, no, no, Polonia, Danemarca, Norvegia, Franza, Scrotoslavia, Lucimburgo, Turchia, Sguizzara, tutta Grecia e Spagna, e dimenticavo Portogallo, e fino l’Andorra e ’l San Marino, che son minime repubblicuzze ne’ monti, no, no, le non si sono alleate alle belve, le non sono slittate sfinctericamenie alle guerre omicidiali dell’imbianchino. Egli, dico il Cupo nostro, e’ volle da prima alla su’ gloria, minacciosa gloria, la baggiana criminalata ad Affrica: ch’era del caffè poco pochino e dello istrombazzato e inesistente petrolio: e dell’oro e del platino, gràttati!: e del carcadè: paventando la ciurma non si stesse cheta, mobile e tumultuaria ch’ella fu sempre e divertita alle fanfare e agli svèntoli, se non a gittarle quell’offa dentro le fauci isciocchissime, (1935), di quella bambinesca scipioneria: dove andarono al sale da ottanta a novanta miliardi lire, in asfaltare le bassure clorurate della Dancalia, dopo aver pagato, per ogni sacco di cemento, oro, il passaggio a i’ ccanale.

Be’, i crimini della trista màfia e di tutti li «entusiasmati» a delinquere avendo raggiunto o me’ dirò permeato ogni pensabbile forma del pragma, cioè ogni latèbra del sistema italiano (con una «penetrazione capillare», oh! sì, davvero), è ovvio che tutte le nostre attività conoscitive e le universe funzioni dell’anima debbano intervenire nel giudizio del male, patito e fatto. Tutti i modi, i metodi, le tecniche, le singule operazioni e le discipline della mente sono chiamati a soccorrerci. L’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie. Quest’atto sacrale si attiene a tutte le ripartizioni del conoscere, a tutti gli argomenti del dire. Tutti i periti, e d’ogni sorta medici, hanno e aranno discettare sulla maialata. 

Il giurisperito in primis, come di fatto accade già nelle corti e ne’ plàciti: e quegli altri periti, o peritesse, che a espedire la procedura vorrebbono traghettare ad Acheronte, per forche piantate a mercato, o trabuccare in fiume più vero e più dimestico li assassini de’ lor figli. Lo storico delle religioni ci si farà, con lampada sacra ed antica, da perscrutare nella sua intensità ed estensione la indifferenza ateistica (a-gnòsi) della banda stivaluta: che si vestì per la Messa de’ minchioni, e andò così paramentata e vestuta a sbravazzare in nel postribolo della Terra universo, coltello a la cintola. L’economista, da indagare, conoscere e certificare il nocumento e gli irreparabili guasti e mal’anni da cotai Soloni e Licurgi alla economia pubblica e alle private sustanze inferti, i presenti e i rimoti e scordati, con la rovina e con la distruzione di quella. Lo studioso di scienza delle finanze, da misurare con il metro del terrore la caduta de’ bilanci di stato, ch’erano ottimi od almeno onesti, e in genere l’entità e la natura contabbile delle concussioni: e ’l discredito, anzi la totale abrogazione del credito: e la menzogna dell’autosufficienza sive αὐτάρκεια, e la inflata carta e lo sperpero, e gli altri infiniti malestri: combinati e comportati dalla fanfaronesca gestione. Ipotecava il futuro da rattoppar le tasche, le buche tasche al presente: carpiva imprestiti e sovvenzioni ai fondi matematici delle assicuratrici da cavar piscine nei monti dove nissune genti vi guazzavano, ch’il potei constatare con gli occhî mia, ch’era di domenica e a mezzogiorno, e al tepidario di tutti marmi intepidiva l’acqua e bagnava sé stessa: carpìvali a’ banchi del popolo, e a le casse dette di risparmio, da pagare medicina agli adepti.  

E da poi l’igignere ci dirà la sua, il militare la sua, il marinaro la sua, l’agricultore la sua: e con tutti questi aranno cicalare pure i medici, massime lo psichiatra o frenologo e ’l dermopata. La Italia la era padronescamente polluta dallo spiritato: lo spiritato l’era imperialmente grattato e tirato a prurigine dal plauso d’un poppolo di quarantaquattro milioni di miliardi d’animalini a cavatappo. Ch’era le millanta volte meglio… vo’ vu’ m’intendete sanza parole. Ergo: la Italia ventitré anni quello animalino la mandò. E che il giudice mi tagli mano, se questo che qui non è sillogismo diritto, di misura stretta. I

l suggeritore fu lui il Ministro, Primo Ministro delle bravazzate, lui il Primo Maresciallo (Maresciallo del cacchio), lui il primo Racimolatore e Fabulatore ed Ejettatore delle scemenze e delle enfatiche cazziate, quali ne sgrondarono giù di balcone ventitré anni durante: sulle povere e macre spalle di una gente sudata, convocata birrescamente a’ sagrati maledetti, a’ rostri delle future isconfitte, incitata alle acclamazioni obbligative: compressa al raduno come la gente acciughiera in nel barile, spersa, in fatto, tra i segni di demenza: a veder lontanar il futuro, il nutrimento della carne, dello spirito futuro. Una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo, la risarciva de’ contributi sindacali «in continuo e promettente sviluppo», cioè via via magnificati alla chetichella «per legge», o «per decreto-legge», cioè ad arbitrio d’un tratto di penna di essi despoti. La Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia abbozzava: ingollava e defecava la legge.

Una sorta sozza di bugia, una mentira senza scampo e senza riscatto veniva intessendosi e trapuntandosi in que’ raduni. Porgeva egli alla moltitudine l’ordito della sua incontinenza buccale, ed ella vi metteva spola di clamori, e di folli gridi, secondo ritmi concitati e turpissimi. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè. La moltitudine, che al dire di messer Nicolò amaro la è femmina, e femmina a certi momenti nottìvaga, simulava a quegli ululati l’amore e l’amoroso delirio, siccome lo suol mentire una qualunque di quelle, ad «accelerare i tempi»: e a sbrigare il cliente: torcendosi in ne’ sua furori e sudori di entusiasta, mammillona singultiva per denaro. Su issu’ poggiuolo il mascelluto, tronfio a stiantare, a quelle prime strida della ragazzaglia e’ gli era già ebbro d’un suo pazzo smarrimento, simile ad alcoolòmane, cui basta annasare il bicchiere da sentirsi preso e dato alla mercé del destino. Indi il mimo d’una scenica evulvescenza, onde la losca razzumaglia si dava elicitare, properare, assistere, spengere quella foja incontenuta. Il bombetta soltanto avea nerbo, nella convenzione del mimo, da colmare (a misura di chella frenesia finta) la tromba vaginale della bassàride. Una bugia sporca, su dalla tenebra delle anime. Dalle bocche, una bava incontenuta. Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè. Cuce il sacco delle sue vantardige un gradasso: capocamorra che distribuisce le coltella a’ ragazzi, pronto sempre da issu’ poggiuolo a dismentire ogni cosa, a rimentire ogni volta.

Questo, ventun anno! Ventun anni di boce e di urli soli del frenetico, come ululati di un bieco lupo in tagliola: o di que’ sinistri berci de’ sua compiacenti, in ogni piazza, e de’ sua bravi acclamanti. E ’l rimanente… muto e scancellato di vita. Ventun anno: il tempo migliore d’una generazione, che è pervenuta a vecchiezza a traverso il silenzio. Per silentium ad senectutem.
Vorrei, e sarebbe il mio debito, essere al caso d’aver dottrina di psichiatra e di frenologo di studio consumato in Sorbona: da poter indagare e conoscere con più partita perizia la follia tetra del Marco Aurelio ipocalcico dalle gambe a ìcchese: autoerotòmane affetto da violenza ereditaria. Da discrivere e pingere in aula magna que’ due mascelloni del teratocèfalo e rachitoide babbèo, e l’esoftalmo dello spiritato, le sue finte furie di tiranno che impallidiva a uno sparo. Da giuntarvi, a tanta lezione, un’altra ancora non meno vera circa la ebefrenica avventatezza del contubernio e della coorte pretoria: ed altra ed altre circa la demenza totale d’un poppolo frenetizzato: che prestava le sue giovani carni, muscoli e petti in parata, a tutti i mimi imperiali del mortuario smargiasso, avendolo inargentato salvatore della Patria. E vorrei e dovrei pur essere un frenologo di quelli da mille lire a consulto: vedutoché a valerci tanta destruzione delle vite e delle fulgide cose la non è suta altra causa, o ratio, che la incontinenza alcolica di un bicchierante.

Frenologo non essendo, e tanto meno sifolòlogo, farò icché potrò.
Gaio Tranquillo Svetonio e Gaio o Publio Cornelio Tacito e’ non furono psichiatri d’aula, né a Bologna né a Padova. Pure la sudicia e sanguinaria follia di Nerone, e la psicosi cupa di Tiberio, senescente in suspicione e in libidine, resurgono ad atto da le lor pagine: quasi nella distretta evidenza d’un referto peritale. Revivono, operatrici folli, non soltanto per sé, voglio dire enucleate in figura, ed espunte da un contesto pragmatico: anzi in relazione a quello, e a le vicende aliene del poppolo e a tutto un coacervo di dati apparentemente estrinseci alla persona del Nero e alla persona di Tiberio: dacché l’uno e l’altro de’ duo principi era propiamente una venenosa drupa in sull’albero, venuta matura e a livore dopo vicine e dopo lontane premesse: etiche, famigliari, sociali, instituzionali, politiche, demiche. Rivive nelle pagine del duca di Saint-Simon, con tutta la mirabile galleria de’ ritratti e de’ nasi, de’ parlanti e semoventi nasi e ritratti, ci rivive e ci siede in mezzo e si accomoda ancora le brache, distolto a pena il sederone di seggetta, quella tacchinesca maestà («une majesté naturelle…») del decimoquarto Luigi dalle trippe doppie («ses boyaux… doubles… que d’ordinaire…»). 

Facciamola a intenderci: né le mia penne di pàpero si crederebbono di poter mai agguagliare le loro, in que’ lor voli ad ali ferme e in chelle cadute a piombo, di nibbio; né il cucchiarone di maldigesta retorica di che s’è ieri l’altro inzaccherata la Italia non può, neanche da gioco, venir comparato alla tronfiezza e alla sublimità decacatoria di Luigi, fastosa e pur vivida e in certa misura chiara in una idea. Donde, a livellare duchi a Versaglia, e a coagularvi in una reverenza a palazzo le disperse e multiformi posizioni del diritto vecchio, quella pompa centrogravitante, quel ragnatelo del cerimoniale, a seggetta e a sala, ed a tavola: e i subjuganti festini.

Tanto meno poi la potrebbe accodarsi, dico la funeraria priapata di codesto cervellone, a’ moltiplicati moduli d’una reticenza pensosa, d’uno stanco desiderio della solitudine propria, d’un disdegnoso dispregio delle mandre e delle dignità molli e corrotte, curuli e plebee, d’un già valido senno, d’un fraterno lutto, d’un rancuroso delirio persecutivo, d’una fantasiosa girandola di turpitudini senili: in che poco a poco s’avviluppò, e declinò e lenta si spense, a Capri, la cruda fierezza oltreché la recidente sagacia di un Claudio: «nil claudiae non perficiunt manus»: già tribuno adolescente alla impresa vindelica e sicuro macchinatore delle consecutive, in Germania e in Pannonia. Che avea gestito la responsabilità viva del comando, e ne recava in sé la faticata sperienza. Claudio Nerone Tiberio Cesare, agli anni suoi, rampollò d’uno de’ più acri e de’ più nobili ceppi della vecchia terra italiana, non nacque in un antro. Ripeteva il suo sangue, e il cognome, dal liberatore d’Italia: il cognome claudio lo si leggeva nel greto del Metauro. Non cercò lo impero. Avutolo, a cinquantase’ anni, lo resse. Militare, e quale!, non ministrò guerre alla sua propia impennacchiata glorionzola vendemmiando, a predisporre le isconfitte, del giovine sangue fraterno: affrenò anzi le sollecitazioni periferiche de’ suoi Mavorti con il freno di ragione, e quella lor vanità professionale del menar la coorte a’ fracassi: eccettoché un tanto, un micolo, da conoscerne assecurata e la maestà dello ’mpero, e tutelati i confini. Posasse in pace, rifiatasse almeno qualche anno ancora, per venire ad aratri, il vecchio carcassone romuleo! Tiberio Cesare antepose per tal modo la incolumità e le fortune vere dello stato alla jattanza d’un propio fanfaronesco trionfo. Ne oblivimini, quaeso. Date suum unicuique.

Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino.

Pervenne, pervenne.

Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. Con que’ du’ grappoloni di banane delle du’ mani, che gli dependevano a’ fianchi, rattenute da du’ braccini corti corti: le quali non ebbono mai conosciuto lavoro e gli stavano attaccate a’ bracci come le fussono morte e di pezza, e senza aver che fare davanti ’l fotografo: i ditoni dieci d’un sudanese inguantato. Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. 
Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!) Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. Il coltello del principe Maramaldo: argentato, dorato: perché di sul trippone figurasse, e rifulgesse: come s’indorano radianti ostensorî. Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, (di due rattratte mani scarafaggi al deserto), sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell’Islam, fattagli da’ maomettani di Via Durini a Malano. Per la pompa e la priapata alessandrina. E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio.

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